Con gli uomini e le donne di Alitalia

La storia e la vita dei lavoratori della ex Compagnia di bandiera non l’ha raccontata quasi nessuno. Quando Berlusconi impose la vendita ai suoi amici ‘capitani coraggiosi’ in migliaia persero il lavoro. Ed ora siamo allo stesso punto.

Quello che segue è un articolo scritto nel 2008, l’11 settembre. Per chi ha vissuto quella tragedia sembra ieri. Perchè nei tanti giorni passati con loro, coi piloti, con gli assistenti di volo, col personale di terra, coi meccanici ho avuto il privilegio di conoscere persone straordinarie.

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Una giornata coi lavoratori Alitalia. Nel palazzotto del ministero, sindacati e Cai bloccati in un confronto senza contorni chiari. Fuori centinaia di uomini e donne. Le domande, la vita e le paure di esseri umani che rischiano di perdere il lavoro.

E’ una giornata afosa ed umida a Roma. L’agonia della compagnia di bandiera è dolorosa, nessuno davvero sa come andrà a finire: una roulette russa, più che una trattativa sindacale. Loro sono lì, in via Fornovo, una strada neppure tanto grande del quartiere Prati, a poche centinaia di metri dall’argine del Tevere che vide ucciso Matteotti, dalla Rai, dalla strada dello shopping, via Cola di Rienzo.

I lavoratori di Alitalia sono alcune centinaia nel tardo pomeriggio. Dalla mattina sono testimoni muti dell’aprirsi e chiudersi di ‘tavoli di contrattazione’, lo strano modo in cui si definiscono le riunioni nelle quali i loro rappresentanti ed i futuri ‘padroni’ delle linee aree nazionali, la Cai, stanno parlando della vita e del futuro di quasi ventimila individui con un nome ed un cognome.

Perchè Antonio, Luisa, Luigi, Anna, Margherita forse tra poche ore saranno ‘in mobilità’, cioè licenziati, senza lavoro, cacciati via per una strada di incertezza a causa di anni e anni di scelte irresponsabili, di soldi buttati al vento, di maneggi politici arroganti ed immorali.

Verso le sette della sera uno di loro scatena lo scompiglio. E’ un uomo di oltre cinquant’anni, napoletano, dipendente dell’Atitech, che opera nel capoluogo campano. Si è cosparso di alcol e minaccia di darsi fuoco se i sindacalisti chiusi nel palazzo non verranno giù ad ascoltare le sue richieste.

Arrivano i pompieri, come se dovessero andare a demolire un cornicione, hanno persino il casco, mentre i carabinieri a presidio del ministero rimangono in disparte, silenziosi, per non esasperare l’anima di queste persone appese a un filo.

“Io sono fortunato – grida Michele D’Apuzzo – perchè dopo trent’anni guadagno mille e settecento euro al mese. Ho due figli, uno è piccolino, l’altro fa l’università. Non è vero che non vogliamo fare sacrifici, lo dovete dire. Ma dovete difenderci, dovete impedire che si firmi quest’accordo su un contratto inaccettabile. Potrei trovare un altro lavoro, vengo dal napoletano. Potrei avere facilmente duemila euro al mese, le notti pagate in straordinario e cinquecento euro per mia moglie se mi succede qualche cosa”.

Intorno all’uomo con l’accendino in mano si è formato un cerchio largo. Quelli che stanno dietro chiedono agli altri cosa succede, c’è un brusio pieno di tensione, dolore, smarrimento. D’Apuzzo continua, parlando in un megafono: “Avete capito, potrei guadagnare lo stesso. Facendo il camorrista. Perchè in quel campo c’è lavoro. C’è sempre lavoro se vuoi vendere droga per la strada. Ma io non voglio fare il camorrista!”.

Grida, grida davvero, e fa venire un brivido alla schiena questo operaio di mezz’età, col volto tirato, lo sguardo incredulo, la bellezza e la disperazione di Napoli nel cuore. Non sa che nella tragedia di Alitalia è stato capace di infilare il male infinito di una società italiana che sembra aver perso il senso della realtà.

D’Apuzzo vorrebbe spiegare, ma il suo discorso è diventato un’invocazione e un ‘j’accuse’ che scavalca i confini di Alitalia, la sintesi mirabile di un problema insolubile: il distacco che ormai separa senza soluzione di continuità il palazzo del potere e cittadini: “Io non sono romano, non vivo a Milano. Lì si può trovar lavoro. A me l’unica chance è andare a faticare in nero in qualche bar, per settecento euro, come faccio?”. Dalla folla intorno qualcuno grida: “Michele, io sono romano, anche qui non si trova niente”.

Eccoli allora questi lavoratori ignorati dai giornali, immaginati come strapagati fannulloni, improduttivi ed inutili. Eccoli in questo pomeriggio romano, sudati e stanchi, mentre aspettano di sapere di che morte moriranno.

La cordata che ha dato vita alla Cai è, in modo chiaro, senza idee. Nessuno conosce il piano industriale, tra loro non ci sono ‘esperti’ di trasporto aereo e Toto, il padrone di Airone, uno dei partner della nuova compagnia, guida una società in proporzione indebitata quanto Alitalia.

Il nodo di oggi è semplice quanto un bicchier d’acqua: contratto aziendale o contratto nazionale. I padroni (si chiamano ancora così, anche se la parola è diventata desueta) vogliono quello aziendale, i sindacati quello nazionale. Dietro la querelle ci sono gli stipendi, ma anche molto di più. Accettare, per i rappresentanti dei lavoratori, vorrebbe dire aprire un precedente che farebbe saltare anni ed anni di lotte sindacali. Con la Lega che è arrivata a parlare di nuovo di ‘gabbie salariali’ non se ne parla proprio, almeno si spera.

I tagli ai salari che chiedono quelli della Cai sono pesanti. Michele da mille e settecento passerebbe, forse, a mille e cento euro. E i precari, gli stagionali come li chiamano qui? E chi prende mille e due, mille e cento, anche novecento? E come si fa a discutere di stipendi se il piano industriale non lo conosce nessuno? Prima decido quanto pago il fornaio e poi capisco quanto mi costa il pane?

Per tutta la giornata, a dispetto di quanto riferisce la stampa, non si è trattato. Avevano diviso la discussione in quattro settori: piloti, personale di terra, assistenti di volo. Il quarto dal nome più impegnativo, ammortizzatori sociali, semplicemente era quello utile a capire come la potrebbero sfangare i licenziati, diventati esuberi, quasi fossero dei tumori maligni.

Il balletto era inquietante. Si riuniva il ‘tavolo’ dei piloti, uno diceva ‘contratto aziendale’, l’altro rispondeva ‘contratto nazionale’. La Cai sosteneva di non volerci pensare, ma che comunque poteva provarci e si alzavano. Si riunivano per il ‘tavolo’ assistenti e stessa scena, poi per quello personale di terra e stessa scena. Un suk mediorientale dove una sola cosa appare chiara: la fragilità della cordata voluta dal presidente del consiglio, Berlusconi. Imprenditori disponibili ‘all’affare’, non certo alla rifondazione dell’Alitalia. E i sindacati impegnati a dare all’opinione pubblica l’immagine di chi rimane a discutere fino alla fine, senza tirarsi indietro, in un duello che mai un sindacato serio dovrebbe accettare, ma che in questo caso era inevitabile. Perché dietro ‘l’emergenza’ sostenuta da Sacconi, Cai e governo tentano di scaricare su un fronte sindacale neppure compatto le cause del fallimento della compagnia di bandiera e promuovere la loro immagine di padroni disposti a sacrificarsi perché “ama l’Italia, vola Alitalia”.

Passano le ore in via Fornovo, nell’attesa dell’arrivo dei tartari. Quì c’è davvero l’indimenticabile romanzo di Buzzati. Una soluzione invisibile, un deserto agghiacciante ed immenso, una guarnigione attonita e muta.

I ‘fannulloni’ di Alitalia, secondo l’Sdl, una delle sigle sindacali, sono 19.350 (sommando Alitalia e Az servizi). Air France-Klm ha 104.659 dipendenti. Ogni lavoratore italiano, in rapporto al numero di passeggeri imbarcati, si prende ‘cura’ di 1375 persone. I franco-olandesi di 714. British Airwais ha 42.403 dipendenti e un rapporto passeggeri per dipendente equivalente a 782 persone. Allora, questi viziati individui non sono poi tanto improduttivi?

Alle tre del mattino sono rimasti in pochi, il suk avrebbe chiuso i battenti, secondo alcuni. Quelli che hanno resistito parlano tra loro. Si scopre che amano questa compagnia, qualcuno è orgoglioso di lavorarci, qualcun altro sente l’ostilità di una opinione pubblica incredibilmente disinformata sulla faccenda.

Poi l’ultimo colpo a una giornata inutile. I segretari generali di Cisl, Uil e Ugl (Raffale Bonanni, Luigi Angeletti e Renata Polverini), il segretario confederale della Cgil (Fabrizio Solari), sono nella sede del ministero del Lavoro di via Flavia per incontrare prima il ministro Maurizio Sacconi, poi anche Rocco Sabelli, che tratta con una delega piena per conto della Cai, la Compagnia Aerea Italiana. L’incontro sarà definito informale. Peccato sia quasi un meeting carbonaro, perchè alcune altre sigle sindacali non ne erano informate, anzi, per meglio dire ne erano completamente all’oscuro.

Sono le quattro di notte, i carabinieri e la polizia sono andati via, qualche decina di manifestanti e un sindacalista dell’Sdl decidono di andare in via Flavia, a far da spettatori ‘dimenticati per caso’ al confronto degli altri.

Non succederà nulla, naturalmente, ed alla fine anche i ‘riuniti informalmente’ mollano la presa. Se ne riparlerà dopo le tredici. Forse.

Roberto Bàrbera

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