In questi giorni, in contemporanea con la crisi irreversibile del Pd, si è scatenato l’attacco finale al M5S. La dietrologia è la scienza dei fessi, ma indubbiamente alcune coincidenze lasciano perplessi.
Anche perchè le notizie sui pentastellati sono ‘pesanti’ e ‘coprono’ quelle sui democtrat, lasciando intendere che esista un solo ‘maramaldo’ nella scena politica nazionale.
Ma andiamo per ordine.
I fatti da osservare sono due: la ‘strana intervista’ all’assessore Berdini della Stampa e oggi le ‘confidenze’ di Di Maio a Raggi pubblicate da la Repubblica.
Per chi non fa il giornalista parrebbero ‘scoop’ del tutto trasparenti, ma così non è.
Nel caso Berdini il giovane precario della Stampa che ha raccolto i ‘pettegolezzi’ dello strettissimo collaboratore di Raggi (a proposito, come mai un personaggio di peso e navigato come quello si lascia andare con un giovanotto qualunque?) aveva ricevuto un ‘suggerimento’ sacro per qualsiasi cronista: “Usami come fonte anonima”.
Invece, ‘il precario’, il redattore capo ed il direttore (tre persone) se ne sono fregati della richiesta ed hanno reso noto il nome della ‘Fonte’. Non esiste reporter al mondo al quale sfugga una regola fondamentale: se tradisco la ‘Fonte’ nessuno parlerà mai più con me.
Berdini è stato chiaro, voleva rimanere nell’ombra ed invece è finito al centro della tempesta. Chi mai più si fiderà non solo del ‘precario’, ma del giornale torinese? Alla Stampa si sono tutti distratti? Va bene, non si sono accorti che si trattava di chiacchiere da portineria, ma neppure si sono ricordati di non rendere noto il nome del pettegolo? Tuttavia, un ‘effetto collaterale’ l’articolo lo ha ottenuto, ha messo ulteriormente in crisi la giunta della Capitale, già molto traballante di suo. Spesso il nulla è esplosivo.
E veniamo alla seconda ‘cosa strana’, la chat di Di Maio pubblicata oggi da La Repubblica.
In questo caso il quotidiano romano avverte: “La prova della falsità della ricostruzione proposta da Di Maio sul ruolo politico che ha svolto nell’affaire dei “quattro amici al bar” è in due chat telefoniche, il cui testo è stato ottenuto da Repubblica”.
Poi spiega che le frasi pubblicate “sono entrambe datate 10 agosto 2016 e custodite nella memoria dello smartphone di Raffaele Marra sequestrato al momento del suo arresto”. Marra sarebbe stato in possesso di un messaggio inviato da Di Maio a Raggi perchè il sindaco glielo avrebbe inoltrato “per tranquillizzarlo”.
Giusto per inquadrare i fatti, Di Maio avrebbe scritto al sindaco di Roma: “Quanto alle ragioni di Marra, lui non si senta umiliato. E’ un servitore dello Stato. Sui miei, il Movimento fa accertamenti ogni mese. L’importante è non trovare nulla”. Insomma, il leader dell’M5S sarebbe colpevole di aver sostenuto qualcuno in quel momento non sospettato di nulla ed in seguito di aver negato il fatto e per questo potrebbe essere un ‘bugiardo’.
Torniamo alla ‘tecnica giornalistica”. Nel ‘Caso Di Maio’ siamo in una condizione simile alla ‘situazione Berdini’. In tutte e due gli articoli la fonte sarebbe chiara, qui lo smartphone di Marra. Ma questo basta?
No e vediamo perchè.
La segretezza della corrispondenza (e quindi anche delle chat) è tutelata dalla legge. Non si possono ‘rubare’ mail, lettere, conversazioni on line, neppure cartoline di auguri. Così non si capisce come possano essere finite nelle mani del giornale quelle frasi, che al di là di ogni ragionevole dubbio non hanno alcun rilievo penale e che gli inquirenti dovrebbero aver distrutto.
Di Maio è un parlamentare della Repubblica, per cui la diffusione di una sua conversazione privata appare fatto molto grave e per ovvi motivi. La stessa riservatezza, sia chiaro, è dovuta a qualsiasi cittadino. La Repubblica, sebbene spieghi in qualche modo la provenienza del testo, non indica il modo in cui è venuta in possesso del materiale.
Il leader pentastellato non è il primo (e non sarà l’ultimo) che non vede rispettato il proprio diritto alla segretezza della corrispondenza. A decine, tra indagati ‘semplici’ ed ‘illustri’, vedono violata dai media ogni giorno la propria privacy anche quando le notizie diffuse non sono degne di nessuna attenzione.
Dunque, la domanda, per Di Maio, resta: chi ha consegnato al quotidiano romano la trascrizione dei testi intercettati? E soprattutto qual’è il motivo della ‘fuga’ di notizie del tutto ininfluenti?
Prima un assessore che spettegola banalità sul proprio sindaco con un giornalista precario chiedendo l’anonimato diventa scoop del giorno con nome pubblicato. Poi le conversazioni private di un parlamentare della Repubblica con il sindaco della Capitale, che nulla hanno di rilevante in una qualsivoglia inchiesta giudiziaria, si materializzano in un altro ‘scoop’ con titolo a caratteri cubitali.
Il giornalismo di inchiesta ha delle regole che vanno rispettate. Non si possono diffondere notizie senza informare i lettori della motivo per il quale sono pubblicate. Che si tratti di una gola profonda o di documenti riservati o che si tratti di un pettegolo di poco conto non fa differenza. Comunque la tutela dell’anonimato della ‘Fonte’ non comprende mai l’omissione sull’origine dei materiali.
Ormai troppo spesso i media ‘sparano’ notizie senza valore e che trovano motivo per esistere solo se inserite in qualche disegno intimidatorio o se sono parte di strategie tese a produrre discredito nei confronti di qualcosa o di qualcuno.
Il dovere del giornalista, lo sappia il lettore, è di raccontare fatti, ma senza prestarsi a manovre opache.
E ci troviamo, in questo frangente e non solo, davvero di fronte a ‘strani casi’.